Le ultime ore di Mario Paciolla raccontate da chi era con lui: reportage da San Vicente del Caguan, tra domande e omertà
SPRACHE
Le voci di due testimoni centrali della notte del 14 luglio. I ricordi della comunità in cui Paciolla lavorava per un progetto di pace. Le ennesime ambiguità nel comportamento dell’ONU. Il nostro viaggio nel municipio colombiano dove Mario è stato trovato senza vita apre nuovi dubbi sulla sua misteriosa scomparsa
“Mario era un cuore nobile, con un’ambizione enorme: fare in modo che la gente del Caquetá potesse godersi la pace”. Ángela (nome di fantasia) fatica a trattenere le lacrime, ricordando lo spirito “silenzioso e analitico” di Mario Paciolla. Un tempo guerrigliera delle FARC, ora Ángela gestisce un progetto di reinserimento sociale di ex combattenti a Miravalle, San Vicente del Caguán: rafting, turismo, allevamenti biologici. Tutte attività che Paciolla supervisionava, nell’ambito della missione ONU che lo vedeva coinvolto. A due mesi dalla sua morte, la comunità sembra ancora incapace di assimilare una vicenda costellata di incongruenze.
La rotta per San Vicente del Caguán è burrascosa. La pandemia e le valanghe che tormentano la regione da inizio settembre hanno ulteriormente isolato il Dipartimento del Caquetá, già di per sé poco accessibile. Nelle tre ore di viaggio che dividono San Vicente del Caguán da Florencia, capoluogo regionale, si contano una decina di posti di blocco dell’esercito. La presenza militare si rarefa negli ultimi chilometri del tragitto, dove la strada sterrata si popola di allevatori a passeggio con il loro bestiame e di contadini in cerca di un passaggio per il centro urbano.
San Vicente del Caguán è una cittadina di 40 mila persone, cui si aggiungono i 30 mila abitanti dell’estesa zona rurale del municipio. Un territorio umido e tropicale, teatro nelle ultime settimane di una tumultuosa serie di episodi violenti: oltre alla morte di Paciolla, sono stati assassinati diversi civili e feriti alcuni membri della polizia giudiziaria, in delitti presumibilmente relazionati con la presenza dei gruppi dissidenti delle FARC guidati da Gentil Duarte.
Mario: il ricordo di San Vicente del Caguán
Mario Paciolla a Miravalle (San Vicente del Caguán). Mario Paciolla viveva nel quartiere Villa Ferro di San Vicente del Caguán, in una via poco trafficata, a pochi isolati dal centro e dall’ufficio delle Nazioni Unite. I protocolli ONU impongono agli operatori nel territorio di limitare le relazioni con la popolazione locale, motivo per cui Paciolla frequentava poche persone al di fuori del circolo dei colleghi. Le consuete cene in Arepería, i calcetti con alcuni vicini e i bagni nella piscina dell’Hotel Amazonia Real erano sostanzialmente gli unici momenti di contatto di Paciolla con la comunità al di fuori del lavoro.
Ben più radicata era la relazione del cooperante italiano con i leader contadini e gli attivisti per i diritti umani. Una di loro, Edilma Cruz, aveva sviluppato una stretta amicizia con Paciolla. “Appena arrivò a San Vicente mi contattò. Voleva capire a fondo le urgenze del territorio. Negli anni siamo diventati grandi amici. Ogni volta che passavo nel suo ufficio parlavamo per tre o quattro ore, a porte chiuse. Della guerra, di come aiutare la gente di San Vicente del Caguán. A volte le figure dell’ONU trascurano la popolazione. Lui no. Era coraggioso, aveva voglia e capacità di aiutare”.
Allo stesso modo, l’ex-guerrigliera Ángela racconta della disponibilità di Paciolla nell’assistere le problematiche dello spazio di reincorporazione: “Era sempre a disposizione, anche durante il weekend. Per via della pandemia, da marzo 2020 l’ONU non è più venuta a visitarci. Ma Mario mi scriveva spesso. Quando avevamo qualche difficoltà si occupava lui di parlarne con l’esercito e di risolvere il problema”.
I timori nei giorni precedenti alla morte
Tutti coloro che avevano a che fare con Paciolla ne ricordano l’affabilità e la puntualità. Eppure, nel giorno precedente alla sua morte Mario non si presenta a un appuntamento con l’attivista Edilma Cruz, senza dare giustificazioni. “Venerdì 10 luglio mi aveva chiamato. Mi disse che doveva parlarmi urgentemente, di una questione personale. Abbiamo fissato l’appuntamento per martedì 14 luglio, nel mio ufficio. Non si è presentato, senza avvisare. Con lui non era mai successo, e ci vedevamo regolarmente. Quel pomeriggio sono stata occupata fino a tardi, e non ho potuto telefonargli. Il giorno dopo mi è stata comunicata la sua morte… Temo si sia portato nella tomba un segreto”.
Venerdì 10 luglio è anche la data della telefonata di Mario a sua madre, in cui comunica i timori per la sua incolumità e la volontà di anticipare il rientro in Italia, a causa di un conflitto interno alla Missione. I proprietari dell’abitazione in cui Paciolla alloggiava confermano di aver notato un cambiamento repentino nei comportamenti dell’inquilino, che viveva al piano superiore rispetto ai padroni di casa.
Diego, proprietario dell’immobile, racconta: “Solitamente, quando rincasavo da lavoro trovavo Mario affacciato alla finestra. Ci salutavamo e scambiavamo due chiacchiere. Parlavamo di calcio, lui era grande tifoso del Napoli, a me piace la Roma. Negli ultimi giorni aveva cambiato atteggiamento. Aveva perso la sua cordialità, non rispondeva ai saluti, era scontroso. Ed era visibilmente pallido, preoccupato. Dopo l’episodio, nessuno era intenzionato a vivere al secondo piano, che di solito affittiamo per aiutarci con le spese”. Ricorda di Mario: “Qualche volta lo invitavamo a cenare, o alle feste di compleanno dei nostri figli, ma declinava sempre. Era un ragazzo riservato. In più di un anno non ha mai invitato gente a casa. Probabilmente doveva rispettare dei protocolli. Quando non avevamo ospiti, si fermava volentieri a chiacchierare. Con l’inizio della quarantena, a marzo, abbiamo ridotto al minimo i contatti”.
Il vigilante e la telefonata di Mario
A poche decine di metri da casa di Paciolla si trova un edificio a tre piani. Nel mese di luglio era ancora in costruzione. Enrique (nome di fantasia), cugino di Diego, lavorava come vigilante notturno del cantiere. È probabilmente l’ultima persona ad aver visto l’italiano in vita.
Alle 22.15 della sera del 14 luglio, Enrique si trova nella terrazza dell’ultimo piano dell’edificio, e vede Mario camminare nervosamente per strada, mentre parla al telefono: “Era molto agitato. Io vigilavo quella strada tutte le notti, e non l’avevo mai visto uscire di sera. Mi è sembrato molto strano. So che erano le 22.15 perché stavo parlando con mia moglie al telefono e ho consultato l’orario della chiamata. È uscito di casa, si è seduto su una panchina lì fuori. Parlava al telefono, ogni tanto si alzava, camminava nervosamente avanti e indietro. Per la distanza, non riuscivo a capire se parlasse in spagnolo o in un’altra lingua”.
Le ambiguità dell’ONU: le ipotesi sui conflitti interni alla missione
Rimangono però tanti dubbi sull’operato dell’ONU, che ha mantenuto il possesso delle chiavi per tutta la giornata del 17 luglio, quando è stata realizzata la pulizia della casa di Paciolla e sono stati ritirati i materiali che potevano ricondurre alle ragioni dello stato d’ansia del cooperante italiano: computer e cellulare, ma anche l’agenda che Mario aveva sempre con sé, su cui appuntava quotidianamente le problematiche del suo lavoro.
Segnala Enrique: “Quel giorno il personale dell’ONU ci ha impedito di salire. La polizia ci aveva dato il permesso di entrare a vedere ciò che era successo, ma Thompson si è alterato e ci ha fermati. ‘È una questione privata’, ci ha detto”.
Se la ricostruzione delle ultime ore di Paciolla è ancora poco definita, le maggiori insidie dell’indagine si relazionano con la ragione scatenante del conflitto tra Paciolla e i colleghi nei giorni precedenti alla morte. Contrariamente a quanto riportato, l’ufficio dell’ONU a San Vicente del Caguán non è stato smantellato: è ancora attivo e vi operano tutti i colleghi di Mario. Nessuno di loro ha voluto rilasciare dichiarazioni.
Oltre alla diffidenza nei confronti di Thompson, alcune fonti riportano di una relazione problematica, sfociata in indagini interne, tra Paciolla e due operatrici della missione: la responsabile Lina Antara e la collega Silvia Arjona. Il silenzio grottesco delle Nazioni Unite, in possesso degli unici materiali che permetterebbero di risalire alla causa delle preoccupazioni di Mario, rimane il maggiore ostacolo alle investigazioni.
In un recente articolo per El Espectador, la giornalista Claudia Duque ha rivelato i dettagli di un episodio risalente al novembre del 2019: le informazioni filtrate da un’investigazione di Paciolla su un bombardamento dell’esercito nazionale nel Caquetá hanno messo a serio rischio la sicurezza dell’operatore italiano. Dopo un immediato viaggio in Italia, Paciolla è però tornato in Colombia prima della fine dell’anno, considerando che ci fossero le condizioni per continuare a collaborare con la missione.
È quindi probabile che le ragioni dei nuovi timori di Paciolla siano diverse. Molti operatori nel territorio segnalano le difficoltà create dalla collaborazione di certi membri dell’ONU con l’esercito nazionale, che favoriscono pericolosi e costanti fughe di informazioni. La ragione di questi vincoli si riscontra nel profilo stesso di alcuni membri della Missione, ufficiali dell’esercito nel loro paese d’origine, e propensi a costituire legami ambigui con le forze militari colombiane.
È inoltre sotto accusa il sistema di sicurezza dell’ONU: in una zona così delicata della Colombia, perché i collaboratori della missione non hanno la possibilità di dormire in uno spazio comune, in cui la protezione fisica e l’assistenza psicologica siano assicurate anche in orario notturno?
“La pace non si può ottenere attraverso la violenza”, recita uno dei murales che colorano la via per San Vicente del Caguán. L’apparente ovvietà del messaggio si scontra con la realtà di una terra dove i progetti di pace sembrano essere falliti, ancora una volta, con la morte di Mario Paciolla, e con l’ostinata omertà dell’ONU