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Chi ha ucciso l’italiano Mario Paciolla? Reportage dalla Colombia violenta, tra Farc e Narcos

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“Qui la gente ha sempre vissuto nella paura, ha sempre tenuto la testa bassa. Ti affacci alla finestra al mattino e vedi i guerriglieri. A mezzogiorno passano i paramilitari. Di sera l’esercito. Mario aveva una mente troppo trasparente, voleva che le cose si facessero bene. Per questo si scontrava spesso con i suoi responsabili”. Così l’attivista locale Gabriela (nome di fantasia) ricorda Mario Paciolla, l’operatore ONU italiano trovato morto nella sua residenza di San Vicente del Caguán (Colombia) il 15 luglio 2020.

Quel giorno Mario aveva in programma di viaggiare a Bogotá. La settimana successiva sarebbe partito per l’Italia, a bordo di uno dei pochi voli umanitari che permettono ai cittadini europei di rincasare in tempi di pandemia. Il 10 luglio, una dura discussione con i suoi superiori. La sensazione di un pericolo imminente, il rafforzamento delle misure di sicurezza di casa e la scelta improvvisa di anticipare il ritorno a Napoli.

L’ultima connessione a WhatsApp alle 22.45 del 14 luglio. Il mattino dopo, il ritrovamento del corpo senza vita. La salma è già stata trasportata in Italia, dove l’autopsia rivelerà l’eventuale fondatezza della tesi del suicidio, apparsa fin da subito poco credibile.

Le ragioni alla base della decisione repentina di abbandonare la missione non sono ancora state determinate. Alcuni dubbi li ha sollevati sul quotidiano El Espectador la giornalista colombiana Claudia Julieta Duque, amica stretta di Paciolla. Ma per comprenderli è necessario aprire lo sguardo alle intricate dinamiche sociali in cui si muovono gli operatori ONU nel Caquetá, Colombia sudorientale. Un campo minato in cui gruppi guerriglieri, mafie locali e reti di narcotraffico internazionale si contendono gli enormi interessi in gioco nel territorio: produzione ed esportazione di cocaina, deforestazione massiva e licenze petrolifere.

Cosa faceva Paciolla in Colombia

In primo luogo, la missione: Mario Paciolla e i suoi colleghi erano incaricati di osservare e valutare il compimento degli accordi di pace tra Governo colombiano e FARC, ratificati a fine 2016. La missione di verifica dell’ONU in Colombia era iniziata nel settembre del 2017. Paciolla ha iniziato a farne parte nell’agosto del 2018. Copriva la zona di San Vicente del Caguán (Caquetá).

Un incarico particolarmente delicato: a San Vicente del Caguán l’implementazione degli accordi di pace stava assumendo da tempo risvolti inquietanti. In effetti, l’assassinio di Paciolla sembra collocarsi in una ben più ampia strategia del terrore messa in atto dai gruppi armati che si contendono da tempo il controllo della regione. Una strategia che, a quanto sembra, ha saputo aggirare i rigidissimi protocolli di sicurezza ONU per i propri dipendenti in zone ad alto rischio. La tutela garantita ai funzionari internazionali sembrerebbe essere misteriosamente venuta meno nel caso dell’operatore italiano. Come è possibile? Perché Paciolla nei giorni precedenti alla morte si sentiva in pericolo?

San Vicente del Caguán: violenza in tempi di pace

Ogni volta che ha un aggiornamento sulla vicenda, Gabriela mi telefona da una scheda non tracciabile. Ha paura di essere intercettata. A San Vicente del Caguán nessuno crede alla versione del suicidio, ma quasi tutti hanno paura di parlare. L’alone di omertà che avvolge il municipio trova facili spiegazioni nella violenza sistematica di cui sono vittime i difensori dei diritti umani locali.

Negli ultimi quattro anni in Colombia sono stati assassinati circa 500 líderes sociales, e dal 2018 San Vicente si trova stabilmente nella lista dei dieci municipi nazionali con la maggiore concentrazione di omicidi di attivisti. Uno di loro, Oscar (altro nome di fantasia), mi racconta che a San Vicente “chi difende i diritti umani è divenuto un trofeo per i gruppi armati”.

Dietro le persecuzioni ai difensori dei diritti umani si cela la macabra riconfigurazione delle geografie del conflitto. Dopo la firma degli accordi di pace del 2016, le sezioni dissidenti delle FARC (il gruppo guerrigliero più longevo e strutturato d’America) hanno costituito nebulose alleanze con le cosiddette BACRIM (Bandas Criminales), organizzazioni criminali dedite al narcotraffico e all’estorsione. Alcune BACRIM sono a loro volta affiliate alle grandi mafie continentali: è da tempo segnalata la presenza del Cartello di Sinaloa nella regione, a gestire la produzione e l’esportazione della cocaina verso il Messico e gli Stati Uniti.

Allo stesso tempo, gli ex-guerriglieri che hanno deciso di consegnare le armi subiscono dal 2016 persecuzioni sistematiche, i cui responsabili sono facilmente identificabili nei nemici storici delle FARC nel territorio: i gruppi paramilitari sorti dalla dissoluzione delle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia) nel 2006. Bande armate affiliate all’estrema destra, tutelate dall’esercito e finanziate con il narcotraffico, la cui principale attività è la repressione violenta di ogni attore politico considerato socialmente scomodo.

La presenza stabile di attori armati a San Vicente del Caguán non è certo una novità. Il municipio vive uno stato radicato di abbandono delle istituzioni. Siamo nella zona settentrionale del Dipartimento del Caquetá, la porta d’ingresso all’Amazzonia colombiana. Negli ultimi decenni il territorio è stato uno dei maggiori epicentri dei grandi focolai di violenza del Paese. Una regione rurale poco accessibile (secondo uno studio dell’UNODC il 72% dei centri abitati è raggiungibile solo via fiume) e in larghi tratti carente di servizi basici per i contadini e gli allevatori che la popolano.

Tra FARC, paramilitari e narcotrafficanti

La scarsa accessibilità del Dipartimento, distribuito tra la Cordigliera Orientale e le prime distese della selva amazzonica, ne ha facilitato l’occupazione militare da parte di svariati gruppi armati. Le FARC occupano la regione nel 1964, sfruttando l’assenza statale per costituire zone di formazione militare dei propri integranti e per assumere il controllo di diversi municipi. Parallelamente, a partire dagli anni ’70 il Caquetá diviene una delle principali zone di coltivazione di coca e produzione di cocaina.

Le FARC intervengono progressivamente nella relazione tra narcotrafficanti e comunità, dapprima chiedendo una tassa (el gramaje) ai coltivatori, per poi espandere le stesse richieste agli acquirenti della droga, ai proprietari dei laboratori di cocaina e ai gestori dei voli diretti verso i porti marittimi del Paese.

A partire dal 1997 interviene nella disputa per il controllo territoriale e del traffico di cocaina il Bloque Central Bolivar, sezione locale della struttura paramilitare delle AUC. Gli scontri armati con le FARC avrebbero tormentato per decenni le comunità contadine della regione. Negli stessi anni, proprio a San Vicente del Caguán hanno inizio le storiche trattative di pace tra le FARC e il Governo di Andrés Pastrana (1999-2002), concluse con un nulla di fatto.

Durante la presidenza di Álvaro Uribe (2002-2010) e con l’appoggio degli Stati Uniti, il territorio del Caquetá viene militarizzato con 18mila uomini armati. Le FARC, in inferiorità numerica, rinunciano agli scontri a fuoco con l’esercito, adottando nuove strategie del terrore per imporre il loro dominio: massacri a civili, torture, omicidi politici. I paramilitari rispondono con le stesse modalità.

Nonostante il corposo intervento militare dello Stato, il territorio è ancora teatro di violenza ed illegalità. Nel solo 2013 vengono sequestrati diecimila chili di cocaina nel territorio. Le arterie San Vicente del Caguán-La Macarena e San Vicente del Caguán-Neiva si stabiliscono come le due rotte centrali per la fuoriuscita della cocaina dalla regione.

Lo smantellamento delle organizzazioni armate diverrà uno dei punti centrali dell’accordo di pace stipulato nel 2016. Tuttavia, come ricorda l’attivista Oscar, le vicende prenderanno una piega diversa: “La firma degli accordi aveva generato molte speranze ed aspettative, per chi come me ha sofferto in prima persona il conflitto. Ci ha permesso di sognare, non solo la pace, ma anche il progetto di una nuova società, in cui i contadini avrebbero avuto un ruolo dignitoso. Con l’avanzamento del processo, le nostre speranze si sono allentate. Sentiamo che stiamo andando incontro a un precipizio”.

La missione dell’ONU e l’attività di Paciolla

“Abbiamo perso una figura fondamentale per un territorio in cerca di pace”. Con queste parole Herson Lugo, assessore alla Pace e alla Riconciliazione per il dipartimento del Caquetá, si riferisce alla morte di Mario Paciolla (Ansa Latina).

La supervisione degli accordi del 2016 da parte della missione di verifica dell’ONU era apparso sin da subito un compito arduo. Le riforme agrarie a tutela dei contadini promesse dal governo firmatario non hanno trovato seguito nei programmi del presidente conservatore Ivan Duque, eletto nel 2018. Il reintegro degli ex-combattenti delle FARC è stato più problematico del previsto: lo Stato non ha garantito la protezione necessaria a tanti integranti del gruppo guerrigliero, assassinati non appena hanno abbandonato le armi.

La sostituzione delle coltivazioni di coca procede a ritmo troppo lento. San Vicente del Caguán continua ad essere una rotta centrale nel trasporto della cocaina verso i porti marittimi di Buenaventura, sulla costa pacifica, e di Cartagena, sul versante atlantico. Inoltre, il mancato compimento degli accordi ha portato tanti ex-guerriglieri a tornare alle armi, frammentando ulteriormente la distribuzione dei gruppi armati e degli interessi economici e sociali del territorio.

In una situazione di sempre più complessa interpretazione, tutti i membri della comunità di San Vicente ascoltati concordano su un fatto: il lavoro di Mario Paciolla nel Caquetá era stato encomiabile. Buona parte della sua attività si concentrava a Miravalle, dove un accampamento delle FARC era stato convertito in zona di reinserimento sociale.

Nel 2019 Paciolla ha gestito un progetto di reintegro di ex-membri FARC attraverso l’attività sportiva del canottaggio, con risultati straordinari: ai mondiali di rafting in Australia dello stesso anno, la nazionale colombiana viene rappresentata da cinque ex-guerriglieri e tre contadini di San Vicente del Caguán. Sono stati numerosi i processi di reintegro supervisionati da Paciolla, così come le sue relazioni di denuncia di crimini dell’esercito nazionale nei confronti delle popolazioni vulnerabili nel territorio.

Gli operativi della forza pubblica si sono intensificati con il ritorno alle armi di alcuni grandi capi delle FARC (El Paisa, Santrich e Iván Márquez), annunciato il 29 agosto 2019 in seguito al mancato rispetto degli accordi di pace da parte del governo di Iván Duque. La designazione della limitrofa regione del Meta come “Zona Futuro” (spazio di erradicazione forzata delle economie illecite) è stato un ulteriore detonante per l’aumento esponenziale di operazioni militari, le cui vittime sono state spesso civili.

È il caso, per esempio, del bombardamento delle forze militari diretto a un accampamento delle FARC di Puerto Rico, municipio limitrofo a San Vicente del Caguán. L’attacco causò la morte di 8 minorenni. Un episodio tragico che, nel novembre del 2019, costò le dimissioni al ministro della difesa Guillermo Botero.

Paciolla, una figura scomoda

Paciolla si era occupato in prima persona della difesa dei diritti delle famiglie degli adolescenti uccisi. Probabilmente la sua integrità era scomoda anche per i suoi responsabili, cui Paciolla criticava legami ambigui con l’esercito e una certa superficialità nelle relazioni dirette a New York, sede centrale dell’ONU.

La giornalista colombiana Claudia Julieta Duque, amica storica di Paciolla, riporta alcune inquietudini al riguardo. In una commovente lettera aperta pubblicata sul quotidiano El Espectador, Duque rivela che Mario le comunicava spesso la sua inconformità con le modalità operative dell’ONU nel territorio, a costo di ritrovarsi in posizioni scomode.

In una riunione informale tenutasi a Florencia, capoluogo del Caquetá e sede regionale della missione di verifica, Paciolla è stato additato da una collega di essere “una spia”. Pochi giorni dopo riporta la grottesca accusa all’amica, “perché scherzava sempre delle assurdità”.

Non è questo il tempo di fare ipotesi, e non sarà certo facile sapere cosa aveva scoperto e inquietato Mario Paciolla. Quello che è certo è che l’operatore italiano si occupava di osservare il rispetto degli accordi di pace e dei diritti umani, in un municipio in cui gli enormi interessi economici in gioco non hanno mai smesso di mietere vittime civili.

Le ultime in ordine di tempo erano state Eilcerio Mendosa (dicembre 2019), attivista per i diritti umani, e Holman Fabio Montés (febbraio 2020), ex-guerrigliero FARC. Entrambi assassinati a San Vicente del Caguán, entrambi i crimini rimasti impuniti.

Una guerra senza regole: attivisti nel mirino

I gruppi armati della regione operano ancora tramite massacri, estorsioni, traffici illeciti. A scontrarsi per il controllo del territorio sono vecchie e nuove dissidenze delle FARC, bande criminali, gruppi paramilitari e l’esercito nazionale. L’ingresso nella regione del Cartello di Sinaloa ha ulteriormente diffuso la pratica del sicariato, con esecuzioni realizzate in maniera metodica da professionisti del crimine.

Una guerra senza volti né regole, che mette in luce le grandi fragilità degli accordi di pace. In questo scenario macabro, anche gli agenti internazionali sembrano aver perso quello status di intoccabilità che contraddistingueva l’attività dell’ONU nelle zone ad alto rischio della Colombia.

Già nel 2017 un funzionario delle Nazioni Unite operativo nel Guaviare (regione amazzonica confinante con il Caquetá) era stato sequestrato da presunte dissidenze delle FARC, e rilasciato dopo due mesi di prigionia. Si occupava di seguire il processo di sostituzione delle coltivazioni di coca.

Nel gennaio del 2018, alcuni membri del Frente 62 delle Dissidenze delle FARC intercettano un veicolo ONU in transito per San Vicente del Caguán. Si appropriano del furgone senza lasciare feriti. Il mezzo sarà recuperato dall’esercito diversi mesi dopo: era utilizzato dalle Dissidenze per trasportare cocaina ed esplosivi.

Nel corso del 2020 appaiono a San Vicente volantini firmati da diversi gruppi armati, in cui si chiede l’immediata fuoriuscita dalla regione di ogni organismo internazionale.

L’attivista Oscar, minacciato da tempo per le sue battaglie in difesa del diritto alla pace dei contadini di San Vicente del Caguán, mi chiede retoricamente: “Tu credi che a questi gruppi faccia piacere che una persona con la schiena dritta controlli il loro operato?”. E aggiunge: “Noi attivisti della comunità non siamo mai stati tutelati, la nostra vita è sempre a rischio. Ma per un funzionario dell’ONU è diverso, si sa che attaccarli implica un’indagine vera, l’attenzione internazionale. Non è come uccidere un attivista locale. Il problema è che il conflitto armato è diventato selvaggio, non fanno più distinzioni. Prima c’era terrore, ma per lo meno esisteva una verticalità, dei nomi, delle gerarchie. Ora non sappiamo nemmeno più chi sono”.

Un’oscura spirale di violenza che continua a travolgere chi, come Mario Paciolla, non poteva accettare compromessi nella sua battaglia per la giustizia e per la pace del popolo colombiano.

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